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mer
5
lug 06

Il Mucchio Selvaggio – Intervista a Alessandro Robecchi

GIALLO / ROBECCHI
di Max Stefani

Il tuo arrivo al Mucchio intorno al 1985 è stato importante. Per noi perché la tua rubrica “Back Stage”, subito diventata un must, è stata la prima apertura verso il sociale e la politica per questo giornale, per di più con un sense of humour trasgressivo che ha poi fatto scuola. Per te perché ha fatto praticamente il necessario apprendistato, le prove insomma, che poi ti hanno portato a Cuore e a quello che hai fatto dopo.

E’ vero. A descrivere adesso cos’era Back Stage sarei un po’ in difficoltà. Era satira? Era critica sociale? Politica? Boh, era un po’ tutto questo, e tutto partiva dal fatto che io mi occupavo di musica, ma in modo un po’ laterale. Insomma, o la musica ci dice qualcosa sul mondo, oppure è un mercato come un altro. Si partì da quello, e poi si arrivò a fare satira politica, che forse non è il termine giusto… E’ roba di più di vent’anni fa, per me fu un’ottima palestra, non capita sempre di avere la libertà totale di dire quello che pensi…

Allora usavi il tuo pseudonimo Roberto Giallo. Che mi pare era lo stesso che usavi all’Unità per firmare le cose musicali?
Sì, era un nome finto inventato su due piedi, per questioni di servizio civile, non aveva particolari significati nascosti, forse Rossi sembrava troppo banale, o troppo pseudonimo, cambiai semplicemente colore al cognome… Ho firmato sul Mucchio e sull’Unità con quel nome per una decina d’anni, e intanto lavoravo per un mensile specializzato di architettura. Non ho mai accettato di avere l’esclusiva per i giornali per cui lavoravo, essenzialmente perché nel tempo libero… lavoravo, e mi piace potermi occupare di diverse cose nello stesso tempo. Così ero Robecchi al mio giornale, Giallo all’Unità e al Mucchio…

Che cosa ti ricordi di quel periodo? Mi ricordo che giravi con una scassata Alfa Romeo. A rileggere quelle pagine che impressione hai?
Era un’Alfetta color cacca chiara, un disastro, perché era una macchina un po’ da camorrista e ogni posto di blocco nel giro di 100 km era mio, scientifico. Ricordo che vedevo tre-quattro concerti alla settimana, non solo in Italia, che era la metà degli anni Ottanta e che in una città come Milano fare questo lavoro e non essere craxiani era piuttosto difficile. Che volevo tanto bene a Stefano Ronzani ed eravamo abbastanza inseparabili. Se rileggo i vecchi Back Stage del Mucchio ovviamente ci trovo tante ingenuità, ma anche parecchie ideuzze, soprattutto sul modo, sul tono. Credo che da lì sia nata una mia convinzione che poi mi ha accompagnato sempre e che trovo perfettamente descritta da una frase di Billy Wilder: “Se proprio devi dire la verità, dilla in modo divertente. Quelli che fanno ridere verranno risparmiati”.

Come andò il passaggio a Cuore?
Michele Serra mi disse che l’inserto satirico dell’Unità diventava un giornale autonomo. Volevo andarci? Ero disposto a trasferirmi a Bologna? Non ebbi dubbi nemmeno per un secondo: era quello che mi piaceva fare con persone con cui era bello lavorare, se si può chiamare un lavoro fare i creativi puri. In effetti furono cinque anni memorabili e lì imparai una cosa fondamentale: a cambiare angolazione, a vedere le cose da un altro punto di vista, a coglierne gli aspetti ridicoli e surreali. Il che nelle faccende italiane non è poi così difficile. Ogni riunione era un paradossale incontro di intelligenze, si rideva molto e si faceva un bel giornale, un giornale importante, se mi passi il termine, perché in qualche modo cambiava il linguaggio, il costume, il modo di dire le cose. Ci piaceva considerarci una banda di cialtroni, ma sotto sotto sapevamo tutti che non era così: Cuore sapeva essere molto serio, anche ridendo…

Su queste pagine abbiamo intervistato sia Sabelli che Serra, ma ambedue sono quasi stati restii a parlare di Cuore. come mai? E cosa ricordi di quel periodo, delle varie fasi, del passaggio a Bologna, e della fine ovviamente.
Capisco che Michele e Claudio abbiano qualche pudore: fu un’esperienza talmente totale, e tutti la vissero intensamente. Ci furono ruggini, alla fine, ma credo che siano le ruggini che ci sono ad ogni capolinea. Cuore chiuse perché non c’erano più margini, perché i suoi cinque anni di esistenza erano bruciati come una fiammata, perché aveva inventato un linguaggio che ormai usavano tutti e dunque vinto una battaglia che inesorabilmente finiva. Credo che sia una durata fisiologica per quel tipo di giornale. Quanto a Michele e a Claudio, sono stati due direttori molto diversi. Michele era – forse dovrei dire è – un genio. Ha insegnato a tutti noi il gusto dell’assurdità del presente, l’uso di un paradosso che dimostrava costantemente quanto era paradossale la realtà. Dietro ogni titolo, dietro ogni battuta c’era una discussione, un pensiero. Sulle nostre scrivanie sgarruppate arrivava il meglio del meglio, le idee di Vauro e gli schizzi di Vincino, i pezzi di Sofri, anche fare una didascalia era un momento creativo e spesso collettivo. Claudio fu diverso, era più corsaro, più giornalista d’assalto. Cominciammo a fare inchieste, interviste stronzissime, ma era un’altra cosa rispetto agli anni di Serra. C’era da imparare anche lì, comunque. Ricordo che mi fece fare un’inchiesta su Tatarella, che fu il primo e forse il più importante dei post-fascisti di An. Andai a Roma e scoprii che il Tatarella sindaco di Cerignola (suo fratello) premiava Tatarella come cerignolano dell’anno, tutto molto ridicolo, puro basso impero. Tornai con il mio pezzo e Claudio mi disse: ma non sei stato a Bari, come! Tatarella è di Bari e tu non ci vai? Porca puttana, mille chilometri! Ma appena arrivai a Bari vidi una scritta su un muro: “Tatarella ebreo”, firmato Fronte della Gioventù. Cazzo, mi dissi, aveva ragione quel pirata di Claudio: bisogna andare a vedere, e quando si crede di aver capito, andare ancora più avanti.

Finita l’esperienza di Cuore, mi pare che sei stato direttore di Radio Popolare.
Direttore dei programmi, per un anno e mezzo. Intanto facevo una striscia quotidiana, Piovono Pietre, che faceva la stessa cosa: satira e informazione, due cose che insieme possono essere esplosive. Cinque anni di levatacce all’alba e di parossistica lettura di giornali. Bello, bellissimo, con una libertà totale, perché Radio Popolare è un laboratorio straordinario e la radio, in generale, ha un’immediatezza poderosa.

Nuovo passaggio. Hai diretto quello che è stato, e forse è tutt’ora , il più importante magazine free: Urban.
Sai come la penso: fare un giornale nuovo, da zero, è una delle cose più belle che si possano fare rimanendo vestiti. A Urban ho potuto scegliere la mia squadra, farlo come piaceva a me. E mi piaceva per un motivo essenziale: era un giornale leggero, ludico, distribuito gratuitamente a un target medio-alto, che mi offriva l’occasione di dimostrare che leggero non vuole necessariamente dire scemo. Durò tre anni, poi l’editore decise che non guadagnava abbastanza, che i giornalisti costavano troppo e cacciò tutti su due piedi, compresa una segretaria di redazione in maternità. I padroni, poi, alla fine, sono padroni. Ma non si dice mai la cosa più vera: che sono “soltanto” padroni, poveretti…

Adesso sei una firma importante del Manifesto
Grazie per l’importante, ma mi viene da ridere… le firme importanti del Manifesto sono ben altre… La linea è sempre quella: se devi dire la verità, dilla in modo divertente. Io tendo a scrivere per giornali che leggerei comunque e il Manifesto è sicuramente il mio giornale, di cui condivido linea e stile: è importantissimo che ci sia qualcuno che dica che il mercato non è tutto, e non deve comandare tutto. Non so se questo sia sintetizzato bene o male nel sottotitolo “quotidiano comunista”, ma a me “quotidiano comunista” va benissimo, non sono di quelli che considerano “comunista” una parolaccia e credo che oggi possa anche essere una parola molto moderna.

E poi c’è la tivù…
Sì, ho cominciato alla partenza di Ballarò. Insieme a Peter Freeman facevamo quei famosi corsivi, quelli che facevano incazzare tutti e che una volta fecero addirittura imbizzarrire Giovanardì. Andò fuori di testa, poverino, perché mostrammo dei bambini afghani sotto le bombe, ci diede dei nazisti…Giovanardi è caricato a molla e dà del nazista a tutti. Durò due anni. Oggi faccio, sempre con Freeman, Verba Volant, sempre su Raitre, che si avvia al terzo anno. Poi scrivo testi per Chiambretti, a Markette…

Cosa significa scrivere per certi attori o certi  programmi? Come funziona esattamente? E… pagano bene?
Non saprei rispondere del tutto. I corsivi di Ballarò erano opinioni, corsivi appunto, che Freeman vestiva di immagini con un montaggio veloce, tipo Blob, molto efficaci, direi. La tivù è un lavoro di squadra, ma la scrittura resta una cosa abbastanza individuale… Verba Volant è il primo programma che faccio come autore (sempre insieme a Freeman) e non è molto diverso dai corsivi, per modalità produttive. Quanto agli altri testi, sono spunti, battute, testi per finte pubblicità o filmati satirici. In realtà non ho mai scritto veramente per un attore. Non escludo di farlo, e anzi mi piacerebbe, ma credo che in quel caso cambi tutto: il testo è tuo, ma la faccia che lo “parla” ha l’ultima parola… La tivù paga bene? Più dei giornali, meno di una rapina all’ufficio postale. Può essere più divertente che scrivere per la stampa, ma anche più rischioso della rapina.

Sei sposato con una scrittrice, Silvia Ballestra. Direi una scrittrice “media”, nel senso che non vende 200.000 copie  ma neanche 3.000. Si può vivere oggi scrivendo solo libri o ci si deve arrangiare anche con altro? Un consiglio a un giovane scrittore? Cambiare  mestiere e o provarci?
Giro a Silvia la definizione “media”, così viene lei direttamente a tagliarti le gomme… Si campa? Non saprei, probabilmente tra anticipi e diritti d’autore viene fuori uno stipendio da metalmeccanico, però sai, per un mio vizietto ideologico che non riesco a guarire, che uno scrittore prenda come un operaio non mi scandalizza e non mi pare nemmeno sbagliato. Ma il discorso è molto più intricato. Diciamo che in questo paese il lavoro intellettuale è costantemente sottovalutato, sfruttato, sottopagato. Pensa a una maestra che deve formare un bambino di sei anni, pensa al prof di storia o filosofia che al liceo può davvero cambiarti la vita… prendono mille, millecinquecento euro al mese o giù di lì, non lo trovi pazzesco? A un giovane scrittore non consiglierei mai di cambiare mestiere, scoraggiare i giovani è una cazzata enorme, i giovani devono osare e rischiare e fare i salti mortali e spaccare il culo ai passeri e se ci riescono pure cambiare il mondo. Gli consiglierei di valutare bene quello che il mestiere comporta, i condizionamenti, la fatica, lo sfruttamento, e l’industria editoriale nella quale si va a ficcare. Se uno lo fa per egocentrismo, per ansia di apparire, chissenefrega, cazzi suoi, le classifiche sono piene di spazzatura ben tre metri sopra il cielo. Scrivere è un’altra cosa, è cercare le parole, esplorare la lingua, ricercare. Se uno lo fa seriamente è un lavoro di alto artigianato che si fa con le mani e con la testa. Leggevo l’altro giorno le lettere private di Fenoglio, alla sua casa editrice: “Per quelle cinquantamila lire che mi dovete, vi prego di far presto…”. Meno male che Beppe non ha mollato! Se ci mettiamo a scoraggiare i giovani adesso, mi chiedo, quando avremo settant’anni che facciamo, gli spariamo?
 
Sei di Milano. Negli ultimi anni non è stata una bella amministrazione. Roma vi ha preso una pista, cosa assolutamente impensabile dieci-quindici anni fa. La città non si è ripresa dalla “Milano da bere” di craxiana memoria, ha passato il periodo leghista e adesso si trova a dover scegliere tra Ferrante e la Moratti. Non è che ci sia da ridere. Che succederà in caso di vittoria dell’uno o dell’altra?
Non ti saprei dire esattamente cosa succederà: se la Moratti farà a Milano quello che ha fatto alla scuola pubblica italiana staremo presto peggio che a Bucarest. Questa è una città tramortita dal mercato, una città privatizzata dove non succede niente che non sia a fini di lucro. Qualche imbecille ha detto che va gestita come un’azienda, molti milanesi ci hanno creduto, allocchi, e hanno pensato che convenisse passare da cittadini a clienti. Risultato: mentre Roma pensava in grande qui si speculava e basta. Non è una cosa di oggi: dalla metà degli anni Ottanta sono state fatte parecchie pulizie etniche, i quartieri popolari a ridosso del centro sono stati trasformati in salottini, i poveri cacciati in periferia e i ricchi installati in cornicette ridicole che scimmiottano Parigi, Il Garibaldi, Porta Venezia, l’Isola… interi quartieri colpiti e affondati a colpi di ristrutturazioni e speculazioni. La prevalenza del fighetto, insomma. Poi sono finiti i soldi e pure i fighetti sembrano finti come i loro lampioncini alla francese. Uno spettacolo abbastanza grottesco, pensare che era una città accogliente, dove venivano a lavorare tutti, una città che cacciò i fascisti a fucilate! Ora è soltanto la caricatura di se stessa, non credo che questa tendenza cambierà a breve, e se vince la Moratti potrà solo peggiorare.
 
Come vedi il mestiere di giornalista in Italia? A vederlo sia dal di fuori che dal di dentro fa schifo. Non esistono più voci libere, i quotidiani sono troppo di parte o troppo accondiscendenti verso il potere. Non parliamo poi di quelli televisivi. E il recente scandalo di “piedi puliti” fa capire che anche quelli sportivi erano tutti a pagamento.
E’ un discorso complicato. Continuo a pensare che sia un lavoro che è possibile fare con onestà e senza inchinarsi a nessuno. Però è anche l’impero della precarietà e della marchetta, francamente se oggi hai vent’anni e vuoi fare questo mestiere non è facile, se non ti leghi a un carro o se non accetti le regole, se non capisci al volo come funziona. Una collega di un settimanale berlusconico qualche giorno fa mi ha detto: “Dopotutto noi giornalisti vendiamo pubblicità”. Ecco, se questo è lo spirito siamo davvero fottuti. Però attenzione, non facciamoci il viaggio che una volta si stava meglio, le voci veramente libere sono sempre state poche, e povere, e chi ci lavora sa che paga la sua libertà con l’essere in perenne bilico. Puoi dare la colpa agli editori, ai partiti, al potere in generale, ma per avere giornali liberi serve per prima cosa gente libera che ci scrive dentro. Non mi interessa sapere se chi si occupava di calcio ai tempi di Moggi era sporco o pulito. Mi limito a notare che erano giornalisti, guardavano una cosa tutto il giorno e non si accorgevano di niente. Dunque erano pessimi giornalisti! Oppure se ne accorgevano, lo dicevano, e al Paese non importava niente. Dunque era un pessimo Paese.

Il giornalismo si è piegato oggi come non mai al messaggio commerciale. Gli editori si sono allineati. I giornali nascono e vivono per le inserzioni pubblicitarie. E intanto le notizie spariscono. L¹informazione è inquinata dalla pubblicità occulta. È una menzogna fare credere che i giornalisti siano al servizio della gente. In realtà sono sacerdoti del potere. Cosa ne pensi?
Questo è il vero condizionamento della stampa, il vero e più evidente limite alla sua libertà. L’inserzionista non compra soltanto uno spazio pubblicitario, ma pretende di entrare nell’informazione, ti chiede un’adesione culturale. Non devi soltanto ospitare a pagamento il suo annuncio, ma anche convincere la gente che consumare, cambiare occhiali da sole ogni due mesi, pensare a una macchina come a uno status symbol sia giusto e doveroso. I giornali si adeguano, basta guardare i femminili o i famosi “stili di vita”. Cosa sono alla fine se non l’ordine: consumate, consumate, consumate? Un giorno il capo della pubblicità di Urban, una sciura tutta impellicciata e magistralmente ignorantotta venne a dirmi: “Chiudiamo la pagina dei libri, lo sanno tutti che chi legge libri poi non spende per altre cose!”. L’inserzionista che ti compra qualche pagina di pubblicità pretende che poi parli di lui, e bene, anche in pagine che non sarebbero in vendita. E’ facile dire che stiamo diventando il regno della marchetta, ma vorrei provare a rovesciare il problema. Perché anche la pubblicità, gli inserzionisti, i pubblicitari non cominciano a pensare che avere giornali migliori sarebbe meglio anche per loro? O pensano di continuare così all’infinito? Non pensano che avere lettori migliori porterebbe clienti migliori? No, non lo pensano, sono imbesuiti da una cultura televisiva che sappiamo bene da dove viene, è un’ideologia che abbiamo visto addirittura al governo del paese.

Elezioni politiche. La vittoria dell¹Ulivo ti avrà fatto sicuramente piacere, ma siamo in molti delusi. Non tanto per il risultato sul filo di lana ma perchè manca la voglia di un deciso cambiamento. Le stesse facce, gli stessi inciuci, la stessa prostrazione verso il Vaticano con la scelta di un Ministro dell’istruzione scelto dal Vaticano. Non pensi che sarebbe stato necessario un gesto forte e coraggioso da parte del presidente del consiglio, quello di mettere a tacere gli interessi di partito e presentarsi con un Governo di 16 ministri, la metà dei quali affidati a donne? Magari  con tecnici invece che politici? Che senso ha mettere Mastella alla giustizia?
Cosa vuoi che ti dica? Io considero un mio diritto volere tutto e volerlo in fretta, ma la politica è l’arte del possibile. E’ vero che non c’è ricambio, che sono sempre le stesse facce, e non ne faccio una questione di schieramento. E’ vero che i preti sono sempre lì con le mani nelle mutande della gente a proibire, vietare, dettare regole, anche regole assurde, che gli stessi cattolici non rispettano quasi mai. Faceva ridere vedere Berlusconi e Casini sbracciarsi per la famiglia quando ne hanno almeno due a testa… Ed è vero che questo nuovo governo è emanazione dei partiti. Ma non ti seguo del tutto. Cosa me ne frega se i ministri sono 16 o 32? Io chiedo altro: che riscrivano per bene la legge sugli immigrati, che riconoscano le famiglie di fatto, che garantiscano più equità. Alla fine vorrei una redistribuizione del reddito, perché negli ultimi dieci anni i ricchi sono diventati molto ricchi e i poveri molto poveri. Lo faranno? Non lo so, ma che lo facciano in 16 o in 50 è un dettaglio insignificante. Avrei voluto – come tutti, a parole – più donne nel nuovo governo. Ma anche questo che significa? La Moratti è una donna e la sua riforma della scuola è schifosa e classista. La Tatcher era una donna e quello che ha fatto del welfare britannico è una carneficina. Non mi aspetto miracoli da questo governo, ma mi piacerebbe che almeno invertisse certe tendenze. Per esempio, più pubblico e meno privato. La scuola elementare di mio figlio spende per ogni alunno – dalle pulizie alla didattica – circa sei euro all’anno. Ecco ne voglio il doppio, e niente soldi alle scuole private. Si può fare? Vedremo. Berlusconi lo disse molto chiaramente: “i comunisti vogliono che il figlio dell’operaio sia uguale al figlio del professionista”. Non so i comunisti, ma io voglio proprio questo. Ci proveranno? Almeno a muoversi in quella direzione? Mah…

Avremo mai una classe politica giovane, avremo mai un quarantenne al potere, come è stato in Inghilterra con Blair e in spagna con Zapatero? Dai ragione a quelli come Moretti che sono eternamente delusi dal centro-sinistra?
La questione dei quarantenni è come quella delle donne. Preferisco un settantenne intelligente e con senso dello stato piuttosto che un quarantenne furbetto e arrampichino. Passi per Zapatero, ma il caso Blair mi pare chiarissimo: non avresti preferito anche tu un novantenne che però non facesse la guerra? Anche un centenario, che però non torturasse i prigionieri, non bombardasse i civili? E poi andiamoci piano con l’astio per i vecchi: in Italia i vecchi sono quelli che hanno cacciato i fascisti a pistolettate, che hanno reso dignità al Paese dopo la barbarie nazi-fascista, chissà se i politici quarantenni di oggi di fronte a una scelta simile avrebbero altrettanto coraggio! Tendenzialmente sì, sono facile alla delusione quando vedo tanta mediocrità nel centro-sinistra, ma poi penso che uno come Calderoli ha riscritto la Costituzione e penso: meglio di quello lì sarebbe pure il mio cane, o Sbirulino, o una merda di pollo. E poi c’è un’altra cosa: piantiamola di delegare tutta la nostra vita ai politici, di pensare che la nostra felicità dipenda da loro. Se non ci piace la loro politica – e non ci piace quasi mai – facciamoci la nostra. Quando la gente faceva politica è nato lo Statuto dei lavoratori, una legge per i tempi avanzatissima. Quando la gente ha smesso di fare politica sono arrivate la Bossi-Fini, la legge Biagi, e pure Silvio. E’ più che mai il caso di dire che il sonno della ragione genera mostri. Mostri con il cerone e i tacchi.
 
Secondo te ha un senso il partito democratico? Potranno mai andare d’accordo Ds e Margherita?
Potranno andare d’accordo se troveranno un minimo comun denominatore, cioè se ognuno rinuncerà a qualcosa. Quindi se annacqueranno le loro identità. Mi sembra una cosa più tattica (avere un partito solo e molto forte) che strategica (lottare in comune per idee comuni). Io tengo molto alle mie differenze, e poi questa faccenda di avere due grossi partiti uno di destra e uno di centro sinistra non mi convince… Poi si finisce come in America che tutti e due votano compatti per fare la guerra…

Sei tifoso dell’Inter e quindi preparato alle delusioni, ma cosa ne pensi di ”piedi puliti”?. Già si sentono le voci del garantismo e della prudenza, i soliti discorsi di sempre. Ricompare la tentazione di chiudere gli occhi e lasciare che la vicenda imbocchi la via lentissima delle aule di giustizia, degli appelli, delle prescirzioni, dell’oblio. Non sarebbe bello fermare il calcio per un anno? Sarebbe un segnale forte anche per tutto il paese!
Sono interista, abbonato, vado allo stadio da quando avevo sei anni, questo fa più o meno quaranta campionati in serie A, più di Mazzone. Penso che in questo scandalo ci siano tutti gli elementi della farsa italiana, ma proprio tutti. Il potere gestito come una grossa disgustosa P2, i figli dei potenti che diventano potenti a rimorchio, i giornalisti servi, i calciatori bellefighe che non vedevano niente. Come nel Paese, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri. Moggi è il Bettino di questi anni, ma cerchiamo di non dimenticare che tutto cominciò quando Silvio prese il Milan, quando arrivò con gli elicotteri, quando si cambiarono le regole della Coppa dei Campioni per avere più partite in tivù, e quindi più pubblicità, più soldi, quando si è fatta sul calcio un’operazione di dumping in piena regola. E nessuno diceva niente… anzi! Tutti entusiasti! E del resto, se non si è fermato il berlusconismo nel Paese, figurati se si riusciva a fermarlo nel pallone. Quanto ad essere interista, capisco la tua ironia, ma non mi fa né caldo né freddo. Io vorrei vincere, ovvio, ma vorrei anche altre cose. Passi che il nostro presidente spenda tantissimo e passi che non vinciamo niente. Ma che abbiamo ancora degli ultras pateticamente nazi che fischiano i giocatori di colore, ecco, questo non posso più tollerarlo. Ormai passo metà della partita a fischiare gli ultrà della mia squadra che fanno buuu ai neri dell’altra squadra. E’ semplicemente grottesco. Quanto a fermare il campionato, no, non mi piace. Non mi convince l’idea che si tolga qualcosa a me perché certi potenti si sono comportati da banditi. E’ vero che a dire “povero Bettino” si sono aspettati tre o quattro anni e “povero Moggi” si dice già dopo dieci minuti. Non è un buon motivo per mollare il colpo. L’etica è una componente dello sport, come i muscoli, il fiato e il pallone. Ed è una cosa che il mercato non sa nemmeno cos’è. Dunque anche qui, meno mercato, e subito!

Quello che più avvilisce è pensare che questo comportamento non si limita al mondo del calcio ma è radicato in ogni aerea della vita pubblica.
Piaceri, favori, una mano lava l’altra, una ragnatela di potenti che brigano e imbrogliano per essere più potenti. I figli dei potenti. I succubi dei potenti che si strusciano al potere. L’unico modo di uscirne è ristabilire un’etica pubblica, un senso della giustizia diffuso. Ci vorranno anni, sarà faticoso, non lo farà Mastella… ma non è che abbiamo molte alternative.
 
Tornando alla musica. Predire la morte della critica è un’assurdità? Si dice che con la rivoluzione di internet, dell’accesso diretto alla musica di tutto il mondo, il pubblico è in grado di fare da solo le sue selezioni e di fregarsene dei consigli dei critici. Ma è così? Oppure avranno sempre bisogno di un aiuto per trovare il bandolo della matassa in questo fiume in piena di musica?
Ma il critico non è una tassa! E’ un’intelligenza che si aggiunge a quella dell’artista, che lo legge in un certo modo, che sa vedere nell’opera cose profonde e notevoli, parlo della buona critica ovviamente. Invece spesso si parla di critica solo come incentivo ai consumi, si cade nella trappola discografica: parlate-bene-di-questo-così-ne-vendiamo-di-più. Cosa c’entra con la critica? E’ vero, c’è il rischio di un flusso indistinto e infinito, ma è anche vero che i grandi budget delle case discografiche vengono spesi per vendere due o tre prodotti a tantissima gente e i prodotti minori vengono abbandonati e dimenticati. E del resto, chi si lamenta della distribuzione elettronica della rete? Le grandi case discografiche, non certo i consumatori! E’ vero, il prodotto diventa più globale, i suoni diventano più plasticosi, uguali, buoni per chiunque da Los Angeles e Canicattì. Ma c’è un altro lato della medaglia: io posso vendere tremila copie del mio disco senza pagare un’industria che me lo stampa e me lo distribuisce. Continuo a pensare alla rete come a un’occasione di democrazia. Bisogna difenderla, piuttosto!
 
Ti hai scritto di musica su un quotidiano. Da sempre i critici deiquotidiani sono considerati i più ignoranti e disinformati della carta stampata. Per colpa di qualcuno oppure il disinteresse del capo servizio sulla musica è totale quando invece non lo è per altre forme di arte, come il cinema o la letteratura? Insomma si fa scrivere il primo che capita tanto è robaccia e quelli che leggono non capiscono niente?
Una volta, parlo di vent’anni fa, il critico di musica era considerato un po’ alla stregua del fessacchiotto della classe differenziale. Dei tuttologi pressappochisti chiamati a scrivere oggi del punk e domani di Al Bano con la stessa precaria infarinatura culturale, per un pubblico indistinto. Alla fine era una questione di centimetri quadrati sul giornale e poco più. Ma il discorso non è così semplice: certo è più facile scrivere di musica per un pubblico che la sente, la compra, la consuma e la ama, come fate voi al Mucchio. E’ anche vero che spesso la musica non è al primo posto tra i pensieri del “capo degli spettacoli”, ma quando ci si è accorti che parlando di musica si parlava anche di costume, cultura giovanile, tendenze della società, allora si è svelato il mistero. I quotidiani mica parlano di musica, alla fine, ma di tutto quello che c’è intorno: divismo, soldi, curiosità, mode…
 
Un giudizio fuori dai denti sui tre giornali musicali più importanti: Rolling Stone? XL? Mucchio? Pregi e difetti.
Scrivo per Rolling Stone e ho scritto tanto per il Mucchio, non credo di riuscire a dare un giudizio sereno e obiettivo. Ma non voglio sottrarmi. Di Rolling Stone penso molto bene, per anni si è detto… come mai in Italia non c’è un giornale come Rolling Stone? Bene, ora c’è, e mi sembra faccia egregiamente il suo lavoro. Se devo trovargli un difetto dirò questo: può contare su uno dei migliori archivi della storia del rock (quello di Rolling Stone americano) e quindi ogni tanto può sembrare un po’ vintage. Ma ha un ottimo direttore e so che Michele Lupi vuole metterci più Italia, più inchieste, più giornalismo… lo trovo ottimo e sono contento di vedere che può migliorare ancora. Il Mucchio… beh. Che vuoi, i complimenti? Te li faccio volentieri. Tiene la barra, ha una sua coerenza in qualche modo fuori moda che mi piace, sa avere i pregi della fanzine (entusiasmo e partecipazione) senza averne i difetti… E’ rigido, il Mucchio e credimi, in un momento in cui tutto è orribilmente flessibile questo è un complimento. Quanto a XL non mi sembra un paragone omologo. Ma sai come funziona. Non si fanno i giornali come una volta. Sono sicuro che quando nacque il Mucchio la domanda fu: facciamo un giornale per dire questo e quello. Oggi quando si fa un giornale, e XL non fa differenza, si parte da un altro punto. Si dice: dobbiamo fare un giornale per gente che ha tot anni e tot soldi da spendere, perché lo vogliono i pubblicitari. Ed ecco XL. E’ come tirare le freccette, e chi becca meglio il target vince. Vince dei soldi, mica la gloria!

Come mai dopo dieci anni buttati con Musica!, il gruppo editoriale Repubblica-Espresso insiste ancora con un giornale di musica?
Perché ormai un grande gruppo editoriale deve avere un ventaglio completo di offerte. Il femminile, il giornale per giovani, l’inserto economico, l’allegato, lo speciale… Deve coprire tutta la presunta domanda con la sua presunta offerta. Non è un giornale è un gruppo editoriale che cerca lettori, e li cerca ovunque. L’ufficio marketing avrà detto… Giardinaggio o Musica? Meglio Musica… Ma perché scaldarsi tanto? Il Mucchio è un prodotto di nicchia. L’intelligenza è spesso di nicchia, anche se per fortuna non sempre. La Gabanelli fa Report e mica si lamenta perché in tivù c’è anche la Domenica In…

1 commento »

Un Commento a “Il Mucchio Selvaggio – Intervista a Alessandro Robecchi”

  1. When it is actually dark enough, you are able to see the stars. ~ Ralph Waldo Emerson

    da Leandra   - lunedì, 9 aprile 2012 alle 20:23

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